Le colonie marine in tempo di guerra #06 - Il Palloncino Rosso
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Le colonie marine in tempo di guerra #06

Le colonie marine in tempo di guerra #06

 

A questo punto vediamo il tragico epilogo di 13.000 bambini, giunti in Italia nel 1940 per quella che doveva essere semplicemente una “vacanza estiva” e si trasformò invece in una odissea interminabile. Lo possiamo dire tranquillamente, perché i fatti lo dimostrano: tra tutte le nefandezze del Regime fascista, questa è stata sicuramente una delle peggiori; e non è nota a tutti.
Si è detto che nella primavera del 1941 ci fu una grossa riorganizzazione delle colonie, dovuta agli sviluppi delle operazioni belliche: il Comando Generale della G.I.L. trasferì gran parte dei piccoli provenienti dall’Africa settentrionale e orientale (ma anche da altri Paesi del Mediterraneo) in altre strutture situate preferibilmente in località dal clima mite e vicino alle linee ferroviarie e alle vie di comunicazione più veloci, in modo da ridurre i consumi di carburante e di carbone. Allo stesso tempo cercò anche di riunire i ragazzi per sesso (almeno dai 10 anni in su) e di mantenere uniti i nuclei familiari. D’altro canto andavano considerate anche le esigenze di istruzione: a seconda dell’età, si allestirono appositi collegi o colonie attrezzate allo scopo. I giovani dai 14 anni in su ed esenti dagli obblighi scolastici, invece, vennero mandati in educatori professionali per l’addestramento artigiano ed agricolo, mentre le “organizzate” vennero assegnate ai lavori domestici nelle colonie, di supporto al personale, o comunque avviate ai lavori femminili. Per gestire questa complessa macchina vennero redatti due regolamenti: uno generale per le colonie (Comando della G.I.L.) e uno didattico-disciplinare per le scuole (Ministero dell’Africa Italiana).
A seguito di ciò le colonie rimaste operative erano 67 e dislocate soprattutto sulla Riviera Ligure e sull’Adriatico (Emilia-Romagna in testa). Tutto questo comportava anche continui spostamenti per gli ospiti delle colonie, con conseguente stress e disagio: la cosa incredibile è che la stampa di allora dava una lettura positiva a questa situazione, infatti secondo L’azione coloniale «i numerosi trasferimenti, per la cura scrupolosa con la quale sono stati effettuati, hanno costituito per i ragazzi nuova ragione di svago, di letizia, di istruzione da aggiungere al benessere fisico e morale di cui godono […]».
Ad ogni modo, pur con qualche lacuna, le organizzazioni fasciste riuscirono ad assistere i giovani “tripolini” fino al luglio del 1943: caduto il Fascismo e fino alla Liberazione (nonché l’immediato dopoguerra) i piccoli ospiti subirono le conseguenze dello sfacelo dello Stato italiano, vivendo vicende a dir poco traumatiche. Infatti essendo nel contempo sciolta anche la Gioventù Italiana, la gestione dei profughi passò al Ministero dell’Africa Italiana e quindi condivisa con la rediviva Opera Balilla nella Repubblica di Salò.
Grazia Arnese, che abbiamo già citato negli articoli precedenti, ricorda come particolarmente drammatici furono gli eventi successivi alla caduta del Regime: infatti, racconta la nostra sopravvissuta, molti ragazzi vennero dirottati al nord e ospitati nelle colonie improvvisate dalla Repubblica Sociale e alcuni di loro vennero addirittura arruolati. Altri invece vennero accolti da famiglie contadine, in quanto, ormai quasi maggiorenni, erano abili ai lavori agricoli. Nel frattempo le colonie che erano state abbandonate erano diventate rifugio delle famiglie sfuggite ai bombardamenti, oppure convertite ad ospedali militari.

Quale fu quindi il destino di tutti quei bambini innocenti? Alcuni non sopravvissero al conflitto: si parla di almeno 3.500 dispersi, molti dei quali erano stati arruolati nella R.S.I.; altri – la maggior parte – non tornarono più in Libia. A dire il vero, come riporta Tino Dalla Valle relativamente alla Romagna, alcune madri erano rientrate in patria già durante le prime settimane di guerra, perché essendo stati chiamati alle armi i mariti e i figli maggiori, non era più possibile condurre i poderi. Queste donne coraggiose cercarono di essere accolte nelle stesse colonie dove erano ospitati i propri figli, rendendosi utili come inservienti, anche perché il sussidio per gli sfollati era misero: alcune di loro vi riuscirono, ma si trattò di pochi casi limitati.
Per diverso tempo dopo la cessazione delle ostilità quei bimbi continuarono a vagare, ospiti di “campi profughi”, nel disinteresse della politica. Solo la Croce Rossa e le organizzazioni religiose (su impulso del Papa Pio XII) si attivarono concretamente per i ricongiungimenti, visto che molte famiglie erano già rientrate. Nel 1946 venne quindi fatto un censimento, da cui risultò che erano rimasti circa 10.000 bambini, sistemati in vari centri di raccolta. Solo 1.500 tornarono il Libia, tutti gli altri ebbero sorti differenti: chi si ricongiunse con le proprie famiglie in Italia, chi emigrò altrove e si rifece una vita. Addirittura alcune ragazze, rimaste incinte da soldati inglesi e americani preferirono sposarsi e trasferirsi all’estero.
Per quanto riguarda Grazia Arnese, le tappe salienti del suo “soggiorno” in patria furono le seguenti: arrivata alla Colonia Lapucci di Marina di Ravenna a 7 anni, assieme ad uno dei fratelli maggiori, fu trasferita come molti dei suoi compagni in diverse altre colonie, subendo talvolta vessazioni dovute al fatto che non sempre il personale di colonia era adeguatamente formato – e si era già in clima militare. Lei fu tra i pochi fortunati a rivedere la propria famiglia, ormai tredicenne, anche se suo padre e uno dei fratelli erano deceduti durante la guerra: sua madre l’aveva ritrovata in Italia, assieme all’altro fratello, in uno di quei campi profughi, a Grosseto.

(Notizie tratte da: I tredicimila ragazzi italo-libici dimenticati dalla storia di G. Arnese Grimaldi, 2014; L’azione coloniale, gennaio 1942; I tripolini in Romagna di Tino Dalla Valle, in Studi romagnoli, 2002. Si ringrazia la Biblioteca civica Gambalunga – Rimini)

 

 

 

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